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Aratta, la città bruciata dai Sumeri: la cultura Jiroft, la mitica Marhashi e i sovrani di Sumer

2023-02-02 07:00

Simone Barcelli

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Aratta, la città bruciata dai Sumeri: la cultura Jiroft, la mitica Marhashi e i sovrani di Sumer

Non solo Sumer: un'importante "anello mancante" potrebbe gettare nuova luce sulle origii della civiltà. Alla ricerca di Aratta, la città maledetta dagli Dei. .

Nel poema Enmerkar e il signore di Aratta (Poema di Enmerkar), realizzato nel III millennio a.C., si racconta un episodio di cinquemila anni fa con protagonista Enmerkar di Uruk, che la Lista Reale Sumerica indica come secondo sovrano della I Dinastia di quella città.

 

Qui il re invoca la dea Inanna per sottomettere Aratta, poiché egli si riconosce davanti agli dèi l’artefice - lo racconto con le parole dell’assiriologo Giovanni Pettinato - di numerosi santuari e templi, tra i quali il più sacro di tutti è il tempio ‘marino’ Abzu di Enki a Eridu: «Enmerkar invia dunque un araldo col compito di avvertire il signore di Aratta che la sua Città sarà saccheggiata e distrutta se lui stesso e il suo popolo non consegneranno l’oro e l’argento richiesto e non costruiranno e onoreranno il tempio di Enki».

 

In una parte di questo componimento, Enki addirittura maledice Aratta. Pettinato scrive ancora che il re di Uruk, dopo reiterati tentativi, esige che il signore di Aratta accumuli per Inanna, a Uruk, oro, argento e pietre preziose: «Egli minaccia di nuovo Aratta di distruzione totale, se il suo signore e il suo popolo non portano ‘pietre della montagna’ per costruire e decorare il santuario di Eridu».

 

Mario Liverani, professore emerito di Storia del Vicino Oriente antico all’Università di Roma La Sapienza, ha proposto di localizzare la misteriosa Aratta nel grande centro proto urbano di Shahr-i Sokhta, una possibile città-stato della cultura Jiroft, originatasi sull’altipiano iranico, nel sud est dell’attuale Iran (antica Persia) tra il IV e III millennio a.C. Il territorio in cui si sviluppò la cultura Jiroft, era chiamato anche ‘via dei lapislazzuli’, poiché era qui che passavano le carovaniere con le pietre preziose provenienti dall’attuale Afghanistan, prima di raggiungere Mesopotamia ed Egitto.

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È possibile che la rete commerciale si concentrasse infine nello Stretto di Hormuz, sulle coste dell’Iran, in quanto situato in posizione strategica tra il Golfo di Oman e il Golfo Persico.

 

Quella che viene definita ‘La città bruciata’, chiamata così a causa di almeno tre devastanti incendi che la distrussero, si sviluppò all’inizio del IV millennio a.C., finendo per essere completamente abbandonata all’inizio del II millennio a.C. Per Enrico Ascalone, docente italiano che insegna all’Università di Copenhagen e direttore del progetto di scavo di Shahr-i Sokhta, le culture dell’altopiano iranico non andrebbero «più viste come un semplice anello di congiunzione tra due civiltà (Indo e Mesopotamia) ma parte integrante di un percorso evolutivo in cui l’Elam, Jiroft e Shahr-i Sokhta svolsero un ruolo attivo e prioritario nella formazione delle società complesse del periodo Calcolitico e di tutta l’Età del Bronzo».

 

Il poema Enmerkar e Lugalbanda va visto come una continuazione dell’altro che abbiamo citato, poiché qui si racconta dell’assedio di Aratta da parte dei soldati di Uruk, guidati da Lugalbanda, il quale avrà infine la meglio grazie all’intervento della dea Inanna, invocata con riti propiziatori da Enmerkar.

 

In questo racconto, appare predominante anche la magia, poiché a favore di Uruk interviene una vecchia e potente maga, Sagburru, che a suon di sortilegi, riesce a sconfiggere il mago di Aratta.

 

Per inciso, il condottiero Lugalbanda è protagonista di altri poemi, in cui sono raccontate le sue gesta, sempre e comunque attinenti alla ribellione di Aratta.

 

D’altronde, anche i poemi dedicati a Dumuzi e Gilgamesh, narrano delle campagne militari intentate nei confronti della città ribelle. Ecco, se in questi ‘resoconti’ poetici ci fosse qualcosa di vero (potrebbe infatti trattarsi solo di componimenti redatti a scopo propagandistico, poiché Sumer voleva espandersi anche in quel territorio ricco di metalli e pietre preziose), il dio Enki avrebbe quindi maledetto la città di Aratta, auspicandone la completa distruzione, come effettivamente accaduto con l’aiuto di Inanna.

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Tavoletta cuneiforme (XVIII-XVII sec. a.c.) con poema epico sumerico su Lugalbanda, leggendario re della città di Uruk.

(Friedrich-Schiller-Universitat: Oreintalische-Samlungen und Papyri / Anne Goddeeris-Attribution-NonCommercial-ShareAlike 4.0 International (CC BY-NC-SA 4.0)

Questa civiltà orientale, che potrebbe essere più antica di quella sumerica, fu scoperta solo nel 2001, quando l’alluvione del fiume Halil Roud, portò in superficie, sul terreno eroso dalle acque, parte del corredo funebre appartenuto in origine a una sepoltura.

 

La cultura di Jiroft, comprendente anche il centro chiamato Shahr-i Sokhta (che potrebbe essere stata, come ho già detto, la mitica Aratta), si sviluppò infatti sullo stesso altipiano a partire dal IV millennio a.C. Le ceramiche rinvenute nei siti della cultura Jiroft, sono databili dalla metà del III millennio in poi.

 

Marta Maurizio, nella sua tesi di laurea del 2012 dal titolo Cultura di Jiroft nel III Millennio a.C., ricorda fra l’altro che vasellame verosimilmente originario della zona dell’Halil Roud è stato rinvenuto in Mesopotamia e in Siria, segno che Jiroft e i siti vicini come Tepe Yahya, erano grandi centri produttivi, ma anche importanti nodi di scambio tra est e ovest.

 

Piotr Steinkeller, professore di Assiriologia nel Dipartimento di Lingue e Civiltà del Vicino Oriente dell’Università di Harvard, nel 2008 ha paventato l’ipotesi che il sito archeologico di Jiroft (da cui prende appunto il nome la civiltà), nei pressi del fiume Halil Roud, sia da identificare con la mitica città di Marhashi, che si trovava tra Anshan e Meluhha.

 

Il nome di Marhashi, che ricorre in un paio di testi sumerici (Enki e Ninhursaga ed Enki e l’Ordine del Mondo), indicava un paese che poteva trovarsi sull’altopiano dell’Iran, nella provincia di Kerman, ai confini col Baluchistan e a ridosso dei territori in cui si estendeva Elam, con cui Marhashi si confederò per arginare la crescente egemonia di Sargon di Akkad.

 

Nel III millennio a.C. Marhashi deteneva con Meluhha (l’India della cultura Indo Sarasvati) il monopolio di lapislazzuli, oro, ceramica di steatite e clorite, beni che comunque, prima di giungere nella Terra fra due fiumi, transitavano sempre per Magan (Golfo di Oman), che invece primeggiava nella fornitura di rame alla Mesopotamia.

 

Tale quadro d’assieme appare evidente durante la Terza dinastia di Ur, soprattutto per l’interpretazione che si attribuisce ad alcune iscrizioni volute dal re Ur-Nammu, fondatore di quella dinastia. Ur gestiva l’intero commercio marittimo con Dilmun e Magan, anche per la strategica posizione presso l’antico estuario dell’Eufrate, nella laguna che immetteva nel Golfo Persico.

 

Il sovrano affermò di aver ‘riportato le navi di Magan’, come recita un’iscrizione rinvenuta a Ur, probabilmente perché fece riaprire i canali insabbiati.

 

Appare del tutto evidente che occorre, a questo punto, collegare Marhashi alla civiltà di Jiroft.

 

Steinkeller ha individuato sull’altopiano iranico altre due cittadine di più modeste dimensioni, a Tepe Yahya e Tall-e Eblis, ma le campagne di scavo che si sono susseguite, guidate dall’archeologo iraniano Youssef Majidzadeh, hanno permesso di rinvenire almeno settecento siti archeologici appartenenti alla medesima cultura, in un’area di quattrocento chilometri quadrati. Anche nel sito archeologico di Kool Khazine, nella regione di Pusht-i Kuh (Elam), come riferisce Moradi Ebrahim del Dipartimento di Archeologia dell’Islamic Azad University of Ilam Branch, sono stati rinvenuti reperti archeologici che la collegano invariabilmente all’antica Marhashi.

 

Massimo Vidale, Docente di Archeologia dei processi Produttivi e Near Eastern Archaeology presso il Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Padova, che ha partecipato a recenti campagne di scavo sull’altopiano iraniano, afferma che è venuta alla luce «una civiltà complessa, pari o per certi versi superiore a quella sumerica per dimensioni urbanistiche, per l’aspetto monumentale e la raffinatezza delle tecniche artistiche. Questo ci obbliga a gettare uno sguardo nuovo sulla formazione delle civiltà tra il IV e il III millennio».

 

In un reportage pubblicato su La Repubblica nel 2007, la giornalista Vanna Vannuccini fornisce ulteriori dettagli sullo scavo di Jiroft, e lo fa ancora con le parole di Massimo Vidale: «Cominciammo a scavare da due collinette, distanti l’una dall’altra 1400 metri. In quella nord è venuta fuori una piattaforma gigantesca a gradoni, uno ziggurat, con una base di 300 metri per 300 e un’altezza di 17 metri. L’intera superficie dell’altra collinetta, 200 metri per 300, si è rivelata una struttura monumentale, costruita su un preesistente accumulo archeologico, circondata da mura larghe 10 metri.

Ad est della cittadella trovammo un’altra piattaforma, larga 24 metri, che era il quartiere dei lavoratori del metallo. Insomma siamo di fronte a una città ben strutturata, con la cittadella amministrativa, il tempio, i quartieri residenziali e i luoghi di lavoro».

 

Per addentrarmi meglio nella discussione, mi affido anche alle ricerche condotte da Luca Peyronel, professore ordinario di Archeologia e Storia dell’arte del Vicino Oriente Antico all’Università di Milano, un vero e proprio luminare in materia, poiché ha diretto scavi archeologici e progetti di ricerca in Turchia, Siria ed Iraq, focalizzando la sua attenzione soprattutto su economia antica, artigianato, commerci e interazioni culturali del Mediterraneo orientale e Asia occidentale durante l’Età del Bronzo.

 

Odoardo Bulgarelli, rifacendosi al contenuto del libro Storia e archeologia del commercio nell'Oriente antico di Peyronel, editato nel 2008, scrive che «Secondo Peyronel (2008: 52-66) in Iran, Afghanistan e Pakistan vi era una lunga e importante tradizione nella lavorazione del lapislazzulo e di altre pietre come calcite, turchese, agata, steatite, presenti sia localmente che importati.

 

A Mehrgahr Mundigak, e Shahr-i Sokhta, Tepe Hissar, a esempio, sono stati ritrovati importanti laboratori artigianali specializzati nella lavorazione dei lapislazzuli e di altre pietre. Tali rinvenimenti archeologici ci danno la possibilità di ricostruire il complesso processo di lavorazione di tali pietre che, nel III millennio a.C., ebbe un forte sviluppo tecnologico. Lo studioso ritiene comunque che i lapislazzuli lavorati nei laboratori di Shahr-i Sokhta fossero destinati (essenzialmente) al consumo interno diversamente da quelli di Mundigak e Tepe Hissar destinati anche all’esportazione verso la Mesopotamia eventualmente al seguito di altri prodotti finiti come i vasi di clorite di Marhashi o le perle di corniola di Meluhha (pp. 52-59).

 

Numerosi vasi di clorite e frammenti sono stati ritrovati in contesti funerari e templi del III millennio a.C. presenti in diversi siti della Mesopotamia, del Golfo (come a Tarut dove sono stati trovati 300 vasi e frammenti di vasi di clorite) e a Susa. Tali vasi venivano prodotti a Marhashi e, in particolare, a Tepe Yahya e Jiroft. La loro consistente presenza a Tarut può significare o che l’isola (e quindi Dilmun) importasse tali vasi direttamente da Marhashi per poi inviarli, almeno in parte, in Mesopotamia, oppure che tali vasi venissero spediti da Marhashi a Magan e da qui inviati a Tarut e poi in Mesopotamia».

 

Madjidzadeh ha suggerito che Marhashi vada identificata proprio con Aratta, poiché solo tra la fine del III e l’inizio del II millennio a.C., sui testi accadici comincia a essere citato il paese di Marhashi, che guarda caso ha le stesse caratteristiche con cui si designava Aratta, un nome d’origine sumerica che all’epoca era evidentemente già scomparso.

 

Anche il mito di Etana, una figura molto simile a Gilgamesh, ricordato nella Lista Reale Sumerica come Il Pastore, colui che salì al cielo e rese stabili i paesi, potrebbe essere un lascito della civiltà di Jiroft.

 

Nel poema La Leggenda di Etana, la cui redazione più antica risale all’inizio del II millennio a.C., il protagonista diventa però il primo re postdiluviano dell’umanità, come d’altronde faceva intendere anche la richiamata Lista, quando indicava che la regalità scese dal cielo e per prima cinse la città di Kish.

 

Proprio a Jiroft è stato rinvenuto un manufatto a forma di manubrio o peso (alcuni lo definiscono ‘borsa’) in clorite che riporta la storia illustrata di Etana su entrambe le facciate. Curiosamente, anche su altri reperti simili rinvenuti sempre a Jiroft, ricorrono le medesime scene.

 

Grazie 

 

Simone


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Simone Barcelli è un divulgatore di Storia antica, archeologia e mitologia.

Già webmaster del portale Tracce d'eternità è stato per anni curatore dell'omonima rivista digitale in download gratuito per gli utenti. Ha collaborato con Edizioni XII nella selezione di testi inediti. Collabora con Cerchio della Luna Editore per la scelta, l'editing e la realizzazione di titoli monografici per la serie "I Quaderni di Tracce".


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