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Un solo popolo, una sola lingua. Panoramica sullo studio delle lingue antiche.

2022-12-14 13:50

Tiziana Pompili Casanova

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Un solo popolo, una sola lingua. Panoramica sullo studio delle lingue antiche.

"...Per tale ragione il linguaggio più antico, quello nato sugli Archetipi, può essere definito LINGUA VERA."

Un tempo, non sappiamo esattamente quando, gli uomini parlavano una sola lingua. Personalmente non ho dubbi in proposito.

Un indizio ce lo offre il mito della torre di Babele.

 

«Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.»

(Gen. 11, 1-9 – C.E.I.)

 

Il brano biblico ha diversi punti che meriterebbero di essere approfonditi. Uno di questi è senz’altro la provenienza di coloro che parlavano “una sola lingua”. L’espressione “Emigrando dall’oriente” della versione C.E.I. (Conferenza Episcopale Italiana, assemblea permanente dei vescovi italiani) diventa “Dirigendosi verso l’Oriente” nella Nuova Riveduta (versione della Bibbia realizzata partendo da una revisione di Giovanni Luzzi da parte della Società Biblica di Ginevra e pubblicata per la prima volta nel 1994 e l’ultima nel 2006), “E avvenne che, mentre si spostavano verso Sud” nella Nuova Dioadati (traduzione della Bibbia edita a Ginevra nel 1607 dal lucchese in esilio Giovanni Diodati, ultima versione nel 1999), “E avvenne che, essendo partiti verso l’Oriente” nella Riveduta 2020 (frutto del lavoro di una commissione editoriale di pastori che ha operato su diversi aspetti del testo lasciando inalterata la struttura della versione del 1924).

 

Le quattro versioni non ci permettono di capire né da quale latitudine fossero partiti, né in che direzione si muovevano “gli uomini”. Ma questa è solo una divagazione, qui il passo biblico ci interessa soprattutto per la questione della lingua.

Tutta la terra.

Siamo in grado di confermare davvero che il fenomeno del parlare un’unica lingua coinvolse tutta la terra? No. Eppure in più di una occasione sono emerse tracce che, per esempio, collegherebbero le lingue native sudamericane con certe lingue uraliche e altre indoeuropee. Allo stato attuale delle cose l’ortodossia non pare interessata a prendere seriamente in considerazione uno studio su tale argomento. Perciò possiamo solo considerarla una coincidenza “curiosa”, se non addirittura un abbaglio di chi per primo notò tali similitudini.

Un solo popolo.

Davvero l’umanità inizialmente formava una sola gente? La tradizione primordiale ha spesso suggerito questa idea, mai presa davvero in seria considerazione dai ricercatori. Pur tenendo conto che l’intero pianeta non fu affollato come oggi, l’idea di una popolazione unica per stirpe, costumi, conoscenze, oggi appare come una favola, o forse un modello filosofico, niente di più.

Una sola lingua.

Anche l’idea di un unico linguaggio universale umano emerge dalla tradizione primordiale. E come abbiamo letto sopra il concetto è arrivato alla documentazione biblica che, spogliata della sua veste di testo sacro, rimane un documento storico che ha la sua importanza.

 

Chissà perché di affermazioni del genere si preferisce cogliere il carattere metaforico piuttosto che intenderle come una informazione reale.

 

Tuttavia, restringendo il campo e considerando un territorio meno vasto dell’intero pianeta, l’idea è più che accettata. “Secondo la linguistica comparativa, la lingua protoindoeuropea […] è la protolingua da cui discendono tutte le lingue indoeuropee.” (Wikipedia – voce “lingua protoindoeuropea”)

 

Si è teorizzato che molte lingue parlate attualmente nel continente euroasiatico discendono da un’unica protolingua, parlata almeno 7.000 anni fa e chiamata, per convenzione, “protoindoeuropeo”. Questa conclusione è importante non solo dal punto di vista linguistico, ma anche a livello genetico poiché indirettamente è la dimostrazione che tutti i popoli europei sono stati un unico popolo in un lontano passato.

 

Sebbene si pensi che sia stata accertata la radice comune delle lingue indoeuropee, non è stata però ancora individuata la Urheimat (dal tedesco: ur → originale, antico, pre-; Heimat → casa, patria), ovvero il luogo dove nacque quella lingua originale, nonostante siano stati suggeriti svariati luoghi e siano state avanzate diverse tesi.

 

La maggiore difficoltà rimane quella di collegare le prove linguistiche con le testimonianze archeologiche. Anche se fosse possibile supporre l’esatta localizzazione della Urheimat, la linguistica comparativa da sola non basterebbe a darne prova e sarebbe necessaria una sinergia di lavoro con la paleontologia, la climatologia, la mitologia comparata, l’archeologia etc.

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C’è da dire che l’indoeuropeistica non è la sola chiave interpretativa nello studio delle lingue euroasiatiche e non pochi linguisti ritengono l’indoeuropeo “una favola”.

 

Un nome su tutti, Giovanni Maria Semerano, filologo e linguista italiano, studioso delle antiche lingue europee e mesopotamiche che ha fermamente osteggiato l’idea dell’esistenza del protoindoeuropeo. Secondo la sua teoria le origini della cultura e delle lingue europee sarebbero di provenienza mediterranea e fondamentalmente semitica. Semerano mise a confronto migliaia di termini del lessico delle antiche lingue europee, attestati nella letteratura e nelle iscrizioni, con quelli delle antiche lingue della Mesopotamia. Secondo l’autore emergerebbe un’affinità semantica e fonetica tra i lessici delle lingue europee e di quelle mesopotamiche, in particolare con l’accadico.

 

Dunque, esistono due idee contrapposte sull’origine delle lingue dell’Europa e parte dell’Asia, sebbene l’indoeuropeistica parrebbe ottenere maggiori consensi da parte degli studiosi.

 

Il sistema di studio comunque è sempre lo stesso, il metodo comparativo che permette di risalire allo stadio anteriore delle parole, quello più antico possibile. Attraverso il metodo comparativo, sono state ricostruite plausibilmente le radici molte parole, ma per i linguisti, invero quasi tutti, i suoni delle lettere dell’alfabeto, presi singolarmente, non hanno mai avuto un significato. Quindi è stata ignorata una parte fondamentale nello studio della lingua originale degli antichi europei.

 

Platone, nel “Cratilo,” esprimendosi sullo studio delle etimologie, lo valuta come una sintesi di semplici congetture, una disciplina in cui le consonanti e le vocali contano poco o niente e nega che l’analisi di un nome possa essere la fonte primaria per rivelare una conoscenza più profonda della cosa nominata, respinge che l’etimologia porti al valore più vicino possibile al concetto che esprimeva in origine.

 

In epoca più recente il prof. Max Müller (1823-1900), famoso linguista finora mai smentito, affermava che “a sound etymology has nothing to do with sound”. Nella frase la prima volta il temine sound è aggettivo e va inteso in una precisa sfumatura dei suoi numerosi valori. A beneficio di chi non conosce l’Inglese alla perfezione, traducendo il significato della citazione in modo esteso tenendo conto degli esatti valori del sound aggettivo, si può dire che Max Müller intendesse “un’etimologia ben fondata, accettabile e credibile perché convincente, verosimile e logica, non ha nulla a che vedere con il suono”.

 

Quindi anche per il grande studioso tedesco il suono era di secondaria rilevanza, se non di importanza nulla.

 

Secondo Franco Rendich, docente alla Ca’ Foscari e ricercatore indipendente, i suoni/segni delle lettere dell’alfabeto protoindoeuropeo, presi singolarmente, invece non erano privi di significato, al contrario i suoni e i segni delle consonanti e delle vocali avevano un valore semantico ben preciso.

 

Ogni singola lettera aveva perciò un senso compiuto, determinato, completo. Quindi i nomi dati alle cose, alle azioni, alle emozioni etc, non venivano originati arbitrariamente, bensì “mettendo insieme” secondo precise regole associative, due o più idee-base rappresentate dai suoni delle consonanti e delle vocali, così che ogni parola nasceva come frutto di un ragionamento in modo da poter descrivere almeno uno dei caratteri essenziali dell’oggetto o dell’azione presentata.

 

Non tenendo conto che le singole lettere dell’alfabeto avevano singolarmente un valore, molto del concetto originale è andato però perduto.

 

I risultati di ricostruzione della linguistica comparativa non hanno portato a conclusioni assolutamente certe. Lo dimostrano le differenti correnti di pensiero sull’origine delle lingue della Antica Europa. Ma l’attendibilità dei suddetti risultati subisce un ulteriore incertezza colpo se si considera corretta l’idea che ogni singola lettera avesse un suo significato.

 

Questo metodo di studio delle lingue antiche non è accettato dall’ortodossia accademica. Viene considerato “visionario”, quando il giudizio è espresso con un minimo di riguardo. Eppure, io sono convinta che sia questa la “via giusta” per riuscire ad avvicinarci il più possibile ai valori originali del linguaggio umano.

 

Oggi per esprimere le proprie percezioni sono necessarie molte “associazioni” di lettere ovvero molte parole. L'abilità di una persona con una buona ricchezza di linguaggio e una buona consapevolezza, sta nello scegliere il minor numero di termini possibili che con la maggiore precisione possibile possano descrivere il pensiero (percezione) che vuole esprimere.

 

È ovvio che a monte è necessaria una capacità reale di comprendere e definire le proprie percezioni, prima di poterle comunicare. Pochi lo sanno fare correttamente e a volte non si tratta di cattiva volontà o di scarsa conoscenza di sé stessi, ma proprio dal modo differente con cui le percezioni vengono recepite dai due emisferi cerebrali che a volte vanno addirittura in conflitto.

 

L’emisfero sinistro ha una visuale razionale maschile della realtà. L’emisfero destro ha una visuale intuitiva femminile e percepisce l’Universo come sensazione.

 

L’incapacità di gestire coscientemente il proprio pensiero che ha il potere modificare la realtà che ci circonda e l’interagire con essa in modo maldestro e casuale, crea nell’uomo moderno un senso di frustrazione e di inadeguatezza.

 

Nell’uomo primordiale non esisteva questa separazione, la realtà era percepita armoniosamente e (a mio avviso) analogamente da tutti. L’antica concezione della vita potrebbe essere descritta, per dirla con parole di Colin Wilson, come un senso di coinvolgimento intuitivo nell’universo, e l’uomo attingeva ad una pre-scienza inconscia, come la definisce Mario Pincherle.

 

Ovvero accedeva ad un sapere che aveva origine nella sintonia con il Pensiero Perfetto o Pensiero vivente, quella Forza cosmica immutabile fuori dallo Spazio-Tempo che può essere percepita solo attraverso le nostre componenti immateriali, di cui tutti siamo partecipi e grazie alla quale siamo riuniti nel Tutto.

 

Il linguaggio nasceva facendo riferimento alle idee-matrici eterne, immutabili e comuni a tutti, gli Archetipi. Essendo questi solo 22 vuol dire che le idee di base delle funzioni rappresentabili dell’Universo sono quelle e nessuna di più. In altre parole, tutto ciò che è “creato” nasce con solo 22 forme/funzioni e solo dieci criteri di combinazione.

 

Gli Archetipi sono come ventidue operatori matematici che operano le trasformazioni della materia e dell’energia, ventidue istruzioni base, mediante le quali tutto è edificato.

 

Nel linguaggio primordiale esisteva una diretta connessione tra lo stato interiore dell’uomo (la sensazione), il suono emesso per manifestarlo, il segno tracciato per comunicarlo nel tempo e nello spazio. Quei suoni e quei segni erano direttamente in connessione con la componente non materiale dell’uomo, perché contengono un valore universale immutabile, intelligibile e comune a tutti gli esseri umani. Quindi una sensazione espressa si ricreava identica in chi riceveva il messaggio. Nel momento in cui sussisteva la coincidenza sensazione=suono=segno, le componenti Emozionale, Razionale e Mentale formavano una sola essenza coscienziale nell’uomo e questi accedeva spontaneamente alle idee eterne fuori dallo spazio-tempo.

 

In altre parole, nell'uomo antico l'immagine percepita della realtà era l'esatta manifestazione della realtà atemporale. Per tale ragione il linguaggio più antico, quello nato sugli Archetipi, può essere definito LINGUA VERA.

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Credo che sia evidente a tutti che il linguaggio che oggi usiamo è senza dubbio più complesso di quello dell’uomo antico.

 

Bene.

 

Facciamo chiarezza: “più complesso” non vuol dire “più evoluto”, ma solo “più specializzato”. Uno strumento si dice “più specializzato” quando serve molto bene per una cosa sola. Il massimo della specializzazione è essere capaci di fare, in modo perfetto, solo una cosa.*

 

Ecco, dunque, che oggi abbiamo bisogno di tante parole per esprimerci, perché sono montagne di lettere dal significato vuoto, perché pronunciamo suoni senza nessuna corrispondenza nell’Assoluto.

 

Quello è il linguaggio che abbiamo perduto, essenziale, perfetto, Universale.

 

Quando ci si interessa alla storia, e soprattutto se ci si approccia ad epoche molto antiche, è necessario cercare di immergersi il più possibile in quella remota realtà umana. Il distacco dal nostro modo di osservare le cose è fondamentale anche se rimanere ancorati a ciò che ci è familiare è un comportamento che ci viene spontaneo poiché siamo portati a riconoscere solo ciò che conosciamo.

 

Tutto il resto passa quasi inosservato.

 

Come quasi inosservati sono passati valori di suoni/segni delle lettere dell’alfabeto protoindoeuropeo, perché per l’uomo moderno un alfabeto è solo una trascrizione fonetica di un sistema di scrittura, segni grafici che rappresentano singolarmente i suoni delle lingue, che solo uniti tra loro esprimono dei significati ma separatamente non dicono niente.

 

Non era così in origine.

 

Dunque, lo studio delle lingue dovrebbe ripartire da zero? Non è questo che dico.

 

Dico che c’è molta strada ancora da fare e non guasterebbe però se si allargassero gli orizzonti.

 

 

Tiziana Pompili Casanova

Fonti: Mario Pincherle - Archetipi. Le chiavi dell’Universo

*Corrado Malanga - Archetipi

Franco Rendich - L’origine delle lingue indoeuropee

Franco Rendich - Dizionario etimologico comparato

Tiziana Pompili Casanova – Pelasgi Stirpe Divina


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Tiziana Pompili Casanova

Ricercatrice e scrittrice.

Ex speaker radiofonica e copywriter. Collaboro con Biagio Russo e Paolo Navone alla gestione del gruppo Facebook “Viaggiatori dei Tempi”.

Ho in cantiere diversi lavori editoriali (fra cui un romanzo e un saggio che presto saranno pubblicati) e altri progetti nel campo della ricerca storica.


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