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Caltabellotta – Le ipotesi (Parte 4)

2023-02-08 08:54

Tiziana Pompili Casanova

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Caltabellotta – Le ipotesi (Parte 4)

Dopo aver raccolto tutte le informazioni fin qui presentate, con una serie di riflessioni conclusive cercherò di avanzare le mie ipotesi personali.

Dopo aver raccolto tutte le informazioni fin qui presentate, con una serie di riflessioni conclusive cercherò di avanzare le mie ipotesi personali sulla probabile funzione che può aver avuto l’opera intagliata nella roccia viva sulla rupe Gogala e in generale, l’area rupestre di Caltabellotta.

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Panorama su Caltabellotta (da CALTABELLOTTA Agricoltura Pastorizia Turismo Cultura https://www.facebook.com/photo/?fbid=539225604671780&set=a.539225564671784)

Innanzi tutto, in base ai concetti elaborati dall’antropologo Claude Levi-Strauss (1908 - 2009) che condivido pienamente, va considerato che solo risalendo all’origine di un mito sarebbe possibile comprendere la sua funzione, il suo funzionamento, la sua struttura. Dunque, esaminando la vicenda leggendaria di Crono, che parrebbe già nota in tempi remoti nella Sicilia arcaica, ci troviamo di fronte al problema filologico relativo alla versione primigenia del mito.

 

Tale problema è però irrisolvibile perché è quasi sempre impossibile risalire al primo esemplare autentico del racconto, alla versione archetipica di un mito. Sebbene a volte la tradizione scritta attesti le forme più antiche tramandate, un mito giunge a noi nel complesso insieme delle sue varianti e come tale va esaminato.

 

A conferma, un pensiero di Jean-Pierre Vernant (1914 – 2007) perfettamente calzante: “…il mito si presenta sottoforma di un racconto venuto dalla notte dei tempi e che esisteva già prima che un qualsiasi narratore iniziasse a raccontarlo. In questo senso, il racconto mitico non dipende dall’invenzione personale né dalla fantasia creatrice, ma dalla trasmissione e dalla memoria…” (Vernant, 2014).

 

Nel caso specifico del nostro tema, Esiodo (metà VIII secolo a.C. – VII secolo a.C.) in Theogonia (164 e segg.) è l’unico autore che riporta in modo dettagliato le origini e le vicende di Crono e lo fa riprendendo tradizioni antichissime a noi ignote.

 

Premesso questo, dal momento che per il manufatto di pietra sulla Rupe Gogala (orientato a Nord-Sud/Est-Ovest secondo studi locali) oggi viene indistintamente usato il nome di ara o altare, per prima cosa direi di stabilire quale delle due definizioni sembrerebbe quella corretta da impiegare. Trascurando il fatto che apparentemente il manufatto ha un aspetto singolare che non è comparabile a niente di simile in Sicilia e dando per scontato che si tratti di una struttura destinata a funzioni rituali perché così la tradizione lo indica, allora io propenderei nettamente per ara poiché, come detto, sulle antiche are mai rialzate sopra il livello del suolo, venivano bruciate esclusivamente le offerte destinate alle divinità terrestri e sotterranee e perché la cultura locale indica il reperto come dedicato ad una divinità ben precisa: Crono.

 

Le divinità ctonie, in gran parte femminili, erano quelle legate alla vita terrestre o sotterranea, alle forze telluriche e vulcaniche, alla vita che viene dalle profondità e ad esse erano destinati culti esclusivi.

 

C’erano anche Dei non specificatamente ctoni, che però erano definiti tali in certe circostanze. Ecate, Dea dell’incantesimo notturno; Ermes, come guida delle anime dei trapassati verso il regno dei morti; Zeus, per esempio invocato per la crescita delle messi. Dunque, senza dubbio anche Crono presenta caratteri ctoni a cominciare dalla sua reclusione obbligata nello stesso ventre della madre Gea (Ge) in cui era stato concepito, uno stato di staticità immutabile causato da Urano che impedisce ai medesimi suoi figli (tre Ciclopi, tre Ecatonchiri e i dodici Titani fra i quali Crono) di venire alla luce. Crono si trova perciò inizialmente bloccato in una staticità forzata in ambiente ctonio, una chiusura in effetti, che si interrompe evirando il padre, sbloccando così il processo generativo.

 

L’agire risoluto di Crono favorisce il parto di Gea, dunque il giusto fluire della vita che, a sua volta, è la negazione per eccellenza della stagnante immobilità dei primordi che precedevano (e impedivano) l’affermazione del Tempo-Crono. (4)

 

Nell’Iliade (ad es. in: XIV, 271 e segg., XV, 221 e segg.) Omero (VIII secolo a.C., in teoria di poco precedente ad Esiodo), ci mostra Crono come colui che condivide l’essenza delle divinità sotterranee così come la natura dei Titani. Questi ultimi, Uranidi figli di Urano, dopo essere stati sconfitti nella Titanomachia, la lotta dei Titani contro Zeus e gli altri Dei per la conquista dell’Olimpo, furono confinati nel Tartaro, lo stesso baratro tenebroso in cui, secondo un’altra tradizione, già Urano aveva relegato i Ciclopi.

 

Secondo Pultarco, anche nella veste di Saturno, a Crono era riconosciuto un carattere ctonio. Ctonio deriva da chthon, uno dei nomi riferiti alla terra. L’altro è ge. Questi non sono equivalenti, ma descrivono due materialità differenti.

 

Nella teologia di Ferecide di Siro sono indicate all’inizio tre divinità: Zeus, Cronos e Chtonìe. Quest’ultima è la Terra, la quale in alcuni miti assume l’aspetto di una Dea. Chtonìe prende poi il nome di Ge quando Zeus, unendosi in matrimonio con lei, le dona un “manto grande e bello”, in cui “ha ricamato con vari colori Ge e Oceano”. Il manto, composto dalle terre emerse con la vegetazione, le acque e ogni suo altro elemento, copre le sembianze infere abissali originarie di Chtonìe che non possono essere mostrate ignude.

 

Il manto è dunque Ge, la terra “che sta sopra”, che avvolge Chtonìe e di fatto diventa un tutt’uno con lei, ma crea al contempo anche una realtà doppia.

 

In effetti chthon e ge designano due aspetti contrapposti della terra: chthon è la superficie della natura infera della terra, la terra che si sviluppa verso il basso, verso gli strati terrosi delle profondità più oscure e nascoste; ge è la biosfera, l’involucro esterno della terra, il suo profilo rivolto verso il cielo. A questa disuguaglianza geologica e stratigrafica corrispondono differenze pratiche e funzionali: chthon non è coltivabile, quindi, non se ne può trarre nutrimento.

 

Per afferrare il concetto è significativo ricordare che in Omero gli uomini sono accompagnati dall’aggettivo epichtonioi, ovvero “che stanno su chthon”, mentre per le piante e gli animali è impiegato l’aggettivo epigaios o epigeios, cioè “che stanno su ge”.

 

Porfirio in un brano dell’Antro delle ninfe dice che Ferecide caratterizzava la dimensione ctonia come profondità, “parlando di recessi (mychous), di fossi (bothrous), di antri (antra)”, concepiti come le porte (thyras, pylas) che le anime varcano nella nascita e nella morte. (5)

 

Nei santuari delle divinità ctonie per lungo tempo restarono in vita pratiche taumaturgiche o sciamaniche ancestrali anche quando erano già state abbandonate in quelli delle altre divinità. Lo sgorgare dell’acqua dalla roccia viva era percepito come un fenomeno di natura divina e le potenze infere e ctonie erano considerate “protettrici e generatrici delle fonti e continuano per questa via ad essere taumaturgiche.” (cit. Gina Melillo)

 

Di fatto, l’idea dell’acqua che zampillando esce dalle profondità del terreno, finì per generare anche una connessione tra i culti acquatici e quelli delle divinità ctonie che sovraintendevano anche ai fenomeni sismici e vulcanici. Laddove si presentava la condizione dello sgorgare dell’acqua dalla terra, del suo gorgogliante fluire nei letti sassosi e del suo fumoso ribollire a causa di fenomeni termali, abbiamo numerose testimonianze relative “a culti praticati presso corsi, guadi e foci di fiumi, polle e sorgenti naturali emergenti o in grotta, legati alle presunte virtù benefiche o venefiche delle acque e caratterizzati da specifici rituali sacri” (6).

 

Fra questi va ricordato il rito dell’incubatio, antica pratica religiosa di dormire in grotte o in ambienti naturali ipogei in vicinanza di pozzi e sorgenti sacre nei ‘santuari della salute’ per ottenere visioni o sogni profetici che, una volta interpretati, aiutavano i malati a ritrovare la salute. Culti tramandati a lungo dalle varie etnie che nei pressi delle acque si stanziarono nel tempo, genti di ceppo italico e latino-falisco o magnogreche, ma non ho dubbi che il fenomeno fosse largamente diffuso, sebbene con qualche variante, anche presso altri gruppi etnici stanziati un po’ ovunque sul pianeta.

 

L’elemento ‘acqua’, inscindibile dai rituali taumaturgici connessi alle divinità ctonie, è senza dubbio il primo indizio che mi riporta a Caltabellotta. La Gogala dispone ancora oggi di purissima acqua potabile che scaturisce da quattro diverse sorgenti spontanee dalla roccia calcarea. Sulla sommità, nel punto più elevato della rupe, si notano numerosi vani scavati artificialmente nella roccia, indice certo di un remoto ed intenso utilizzo da parte dell’uomo.

 

Le fonti locali spesso accennano che a Caltabellotta ci sono prove certe riguardanti un culto in particolare non altrimenti specificato. Se l’intuito non mi inganna, credo che ci troviamo in un’area sacra, un intero territorio dedicato a rituali di rigenerazione e guarigione.

 

Tuttavia, prima di documentare meglio tale ipotesi, cerchiamo di aggiungere altri particolari che ci diano un’idea più dettagliata delle tracce che il passato ha lasciato sul territorio rupestre di Caltabellotta.

 

La cresta montagnosa che domina l’antichissimo borgo, ha una serie di cime così denominate: Argiùni, Vitadda, Guàguàla, Kràtas, Kòllega, Gulèa, Giùbbu, Kristarèdda, Nira. Secondo il glottologo Enrico Caltagirone, eccetto uno, Giùbbu, che deriva dall’arabo (Jebel = monte), si tratta di toponimi derivati dal sanscrito, cosa che può apparire singolare poiché non è facile spiegare attraverso quali correnti migratorie una delle più antiche lingue indoeuropee sia giunta in territorio sicano.

 

La cosa però diventa ancora più intrigante e sorprendente se tutto ciò viene messo in relazione con l’identico fenomeno che si rileva a Pantelleria. Infatti, il pantesco Monte Gibele prende il nome dal medesimo termine arabo che significa semplicemente ‘monte’, proprio come per il Giùbbu di Caltabellotta. Ma a parte i resti recenti della lingua araba nell’idioma locale (lo sbarco islamico in Sicilia fu nell’827), non sappiamo quasi nulla del linguaggio dei Sesioti, quelli che vengono considerati i primi abitatori dell’isola di Pantelleria. Studi attuali propendono per identificare i Sesioti con i proto-siculi (?) che si insediarono in epoca preistorica in Sicilia e nelle sue isole minori.

 

Parlare di proto-siculi in questa circostanza è un’ipotesi che mi lascia fortemente perplessa, soprattutto in considerazione del fatto che il gruppo etnico dei Siculi fu successivo ai Sicani in Sicilia (7).

 

Lo documenta Diodoro Siculo affermando che Siculi provenienti dall’Italia (perciò da Est) avrebbero occupato le aree lasciate libere dai Sicani. Sull’origine di questi ultimi invece, sebbene la questione rimanga incerta e discussa, abbiamo due principali ipotesi attestate dagli storici: per Timeo di Tauromenio erano autoctoni, ma Filisto di Siracusa, Tucidide e Dionigi di Alicarnasso sostengono che i Sicani fossero un popolo di provenienza iberica.

 

Una teoria vuole che venissero dall’estremo nord Europa e navigando lungo la costa atlantica, sarebbero approdati in Spagna. Per sfuggire poi ai Liguri, i Sicani avrebbero lasciato l’Iberia arrivando in Sicilia da Ovest, occupando pian piano l’intera isola.

 

A sostegno di questa tesi si fa presente che nella Spagna Nordoccidentale, al confine con il Portogallo, non lontano dalla costa atlantica, esiste un fiume che si chiama Río de Adraño e nei pressi c’è un villaggio anch’esso chiamato Adraño. Adhrano, Adrano, Adranòs o Hadranusin latino (nome che riconduce alla lingua protogermanica), era una divinità sicana (8) legata all’acqua e ai fenomeni vulcanici.

Inoltre, Teopompo cita in Sicilia come città sicane Miskera e Indara, i cui nomi sono dall’archeologo Adolf Schulten reputati di tipo libico-iberico, come quello di Hykkara altra città dei Sicani citata da Tucidite.

 

La versione ortodossa però trova discutibile che i Sicani giungessero in Sicilia dalla Spagna navigando per mare e in alternativa propone un loro viaggio via terra.

 

Gli accademici sono riluttanti ad accettare la navigazione in mare aperto in epoche tanto remote: l’arrivo dei Siculi è datato sul finire del II millennio a.C., ma i Sicani c’erano già da tempo, secondo le stime ufficiali insediati tra il III e il II millennio a.C. Tuttavia, basandoci sui reperti delle grotte del Monte Kronio, l’epoca potrebbe essere retrodatata e si potrebbe persino azzardare che i Sicani fossero già in Sicilia almeno dal 4000 a.C. (qualcuno avanza dall’8000 a.C.), un’epoca così indietro nel tempo che spiegherebbe la tesi dell’autoctonia pretesa Timeo di Tauromenio.

 

Se i Sicani avessero raggiunto la Sicilia via mare, sarebbe anche motivato il loro iniziale stanziamento nella parte occidentale dell’isola, quella che si affaccia proprio sull’Iberia, da cui poi si sarebbero estesi quasi per l’intera Sicilia e a cui avrebbero fatto ritorno ritirandosi con l’arrivo dei Siculi da Est.

 

Comunque, riprendendo il discorso della lingua dei primi abitatori di Pantelleria, si ipotizza che fossero indoeuropei e che parlassero una sorta di antico sanscrito. Sono informazioni ancora da dimostrare e che non vengono date per certe, eppure se messe in relazione con toponimi derivati dal sanscrito della cresta montuosa di Caltabellotta, non solo assumono un’importanza di un certo spessore, ma permettono anche di congetturare un legame ancora più stretto tra l’area Sicana e Pantelleria.

 

Come che sia, torniamo all’osservazione del territorio caltabellottese.

 

Seguendo le indagini di Vincenzo Carmelo Mulè, ex maestro di scuola elementare e ricercatore autodidatta di Archeoastronomia, scopriamo che la cresta montuosa dominante sull’abitato è disseminata da un gran numero di ipogei, vani sotterranei scavati nella roccia, probabilmente adibiti in origine a luoghi di culto. Ciò si accorda perfettamente con le consuetudini dei Sicani che abitavano in località rocciose elevate, sotto il comando di un capo unico. Un tipo di insediamento che richiama ancora analogie libico-iberiche.

 

Tredici sono gli ipogei nel “Complesso Rupestre della Pietà” a Caltabellotta di cui uno a tholos e con vasche per le abluzioni. Anche l’Ipogeo della Villa Comunale è tholos con un foro al vertice (ridotto di dimensioni nel 1932) da cui, a mezzogiorno del Solstizio d’Estate, il Sole entra perpendicolarmente nell’ambiente.

 

Altri due ipogei sono sul Monte Kòllega, comunemente chiamato San Pellegrino. E poi l’ipogeo inferiore (detto Grotta del Drago), l’ipogeo superiore (detto Grotta del Santo), l’ipogeo di Porta Parenti in Contrada Portella. Grotte e acque, due elementi indispensabili e inscindibili nei rituali sacri dell’antichità specifici per le guarigioni.

 

Ma non è tutto.

 

Sempre secondo Mulè, i reperti finora individuati (riporto testualmente) sono:

 

- un incavo per lo sventramento degli animali;

- uno scivolo;

- le canalette di scolo;

- una lunga linea direzionale Est-Ovest;

- un insediamento preistorico a circa 100 metri nello strapiombo a taglio del lato Nord;

- l'inizio di una necropoli sicana alla base dello strapiombo a Sud;

- una Tholos per il Rito di Epifania Luminosa (di cui abbiamo già accennato);

- 2 forcelle di passaggio nord-sud della crosta;

- 72 abitazioni rupestri o più che lo circondano;

- Lu Tavolinu (Altare Purificatore), quasi adiacente, con pietre intagliate a croce che, secondo la studiosa Irene Soggia, potrebbero essere come un passaggio obbligato per la purificazione prima di entrare in un luogo sacro e sopra il quale vi è segnata la Triplice Cinta;

- Altare Sacrificale sulla fortificazione nord (cosiddetto Castel Vecchio); (suppongo si tratti dell’Ara di Kronos)

- SIKÀNIA (un blocco roccioso di forma trigona incastrato artificialmente e in equilibrio -23° Azimuth-, su un enorme sperone naturale. È considerato un ‘monumento’ megalitico dalla forma molto simile all’isola siciliana.) È orientato perfettamente ai 4 Punti Cardinali con il “viso” (la parte liscia) rivolto alla Levata del Sole di tutto l'anno (60°-120°) verso il Monte Guàguàla e l’attuale Cattedrale, dove sorgeva un tempio sicano, i cui resti sono ancora visibili all’interno. La punta occidentale è orientata al Tramonto del Solstizio d’Estate; infatti, intorno al 21 giugno di ogni anno il Sole tramonta esattamente a 300° in un piccolo incavo artificiale tra il monumento SIKÀNIA e Li Meuli;

- 3 Calendari Solari;

- Dio Pan Priapo;

- 1 grande parete con una miriadi di coppelle (da studiare attentamente) e 4 podi di osservazione astronomica scavati nella montagna. (9)

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“Sikania” Foto di Accursio Castrogiovanni http://www.caltabellotta.net/vari/calendariosikano/sikani02.htm

Merita di essere specificatamente citato anche il così detto “Santuario di Taja”, calendario astronomico preistorico, solare e lunare.

 

“Il Sole sorge, entra in un foro artificiale “oculo ellittico” nella pietra, detto ‘Campanaru di Taja’, Vero Calendario della Natura, si allinea con qualche punto o linea, incavati artificialmente nella roccia all'interno del Santuario e poi tramonta nella sua Cresta. Oggi, come più di 3000 anni fa, si può ancora assistere a questa magica “ierofania”, frutto di grandi conoscenze astronomiche e geometriche che il Popolo dei Sikáni aveva e utilizzava in questo luogo per i loro riti legati alla vita quotidiana, alla fertilità, all’agricoltura, alla pastorizia e, forse, anche alla navigazione”. (Vincenzo Carmelo Mulè)

 

“Tanta roba”.

 

Tanta che ci si stupisce come un tale patrimonio prezioso rimanga del tutto sconosciuto ai più e le autorità non si degnano di prendere in considerazione nessuna indagine approfondita.

 

Grazie 

 

Tiziana Pompili Casanova

 

Note

 

(4) Ishvarananda Cucco: Il mito di Crono. Analisi strutturale e implicazioni filosofico-giuridiche - Studi Nuovo meridionalismo Anno VII - n.13/Ottobre 2021 ISSN (2464-9279) – RICERCHE

 

(5) Giorgio Agamben: Gaia e Ctonia - 28 dicembre 2020 (https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-gaia-ectonia)

 

(6) Maria Federica Petraccia, Mefitis dea salutifera?

 

(7) Ci sono buone ragioni, superflue da approfondire in questo contesto, per ritenere che Sicani e Siculi fossero in realtà due gruppi di uno stesso popolo preindoeuropeo migrato in Sicilia da due direzioni diverse e in epoche differenti.

 

(8) Secondo il linguista Giovanni Alessio, ‘Adrano’ è un nome di origine sicana; tuttavia, spesso la divinità viene ricollegata ai Siculi e non ai Sicani. L’incongruenza si spiegherebbe senza problemi considerando quanto detto nella nota precedente. Adrano inoltre è il nome di una città nei pressi di Catania, sorta sulle pendici dell’Etna le cui prime tracce risalgono al Neolitico. L’ambiente vulcanico su cui sorse l’abitato di Adrano ci riporta alla natura ctonia della divinità Adrano legata all’acqua e ai fenomeni vulcanici.

 

(9) Vincenzo Carmelo Mulè, dalla pagina Facebook “CALTABELLOTTA Agricoltura Pastorizia Turismo Cultura”, post pubblico del 17 dicembre 2018 https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=pfbid02bySU9Zhks6RjM3gJxeFs34sXDEsBbCreFg3gZ 7HqT14kBC6zufRy5FBXyyd8FtzUl&id=47602913075


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Tiziana Pompili Casanova

Ricercatrice e scrittrice.

Ex speaker radiofonica e copywriter. Collabora con Biagio Russo e Paolo Navone alla gestione del gruppo Facebook “Viaggiatori dei Tempi”. Ha in cantiere diversi lavori editoriali (fra cui un romanzo e un saggio che presto saranno pubblicati) e altri progetti nel campo della ricerca storica.


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